mercoledì 16 febbraio 2011

il fantasma di tom joad (prima parte)




Ospito volentieri la tesina del mio amico Marco Puglioli, che l'anno scorso in quinta superiore ha svolto un bell'approfondimento sul ruolo sociale del cinema.



Il ruolo sociale del cinema negli anni immediatamente successivi alla Grande Depressione in America e in Germania

"Come farò a sapere cosa ti succederà?"

"... Forse è come dice Casy, un uomo non ha un'anima sua, ma solo un pezzetto di una grande anima.
Una grande anima che appartiene a tutti quanti. Allora ... "

"Allora cosa?"

"Allora non ha importanza. Mi aggirerò nell'ombra.
Sarò ovunque. Ovunque tu guarderai, io sarò là.
Dove si lotta perchè gli affamati abbiano da mangiare, io ci sarò.
Dove un poliziotto picchia un uomo, io ci sarò.
Sarò nelle grida di rabbia della gente.
Nelle risate dei bimbi che hanno fame e ridono perchè sanno che la cena è pronta.
E quando la gente mangerà i prodotti della propria terra e vivrà nella casa che si è costruita,
cercami, io sarò là."

da “Grapes of Wrath”

Ho scoperto “Furore”, di John Steinbeck, grazie alla canzone di Bruce Springsteen “The ghost of Tom Joad”. Dopo la lettura del libro, ho immediatamente deciso che l’America della Grande Depressione del 1929 sarebbe stata argomento della tesina dell’esame di maturità. “Furore” colpisce soprattutto per la caratterizzazione psicologica dei personaggi: mai stereotipata, sempre sorprendentemente umana. Steinbeck scrive un romanzo dai contenuti fortemente drammatici, senza mai cadere tuttavia nel patetico o nel banale, raggiungendo anzi picchi di prezioso lirismo – la sequenza finale, ad esempio, focalizzata sull’energia della maternità, oppure il monologo di addio di Tom Joad alla madre – che gli permettono di essere considerato il principale esponente letterario della Grande Depressione. Tuttavia, sebbene del romanzo in sé si potrebbe discorrere per ore, dopo aver letto un articolo apparso sul Corriere della Sera del 20-12-2009, in cui, citando il saggio del 1967 di Giorgio Galli e Franco Rositi <>, veniva esaminato il ruolo del cinema in seguito alla crisi del 1929 dal punto di vista americano e da quello tedesco, ho preferito approfondire il ruolo sociale del cinema di quegli anni. Ho deciso allora di passare dal piano “teorico” a quello “pratico”, scegliendo un film degli anni immediatamente successivi alla Grande Depressione americano e uno tedesco. Inoltre avevo già guardato la trasposizione cinematografica di “Furore”, di John Ford. La ricerca dei due titoli non è stata semplice, in particolare dal punto di vista dell’allora Repubblica di Weimar: i titoli, oltre ad essere in numero esiguo, erano spesso esplicitamente di propaganda oppure di generi poco atti alla ricerca che stavo effettuando. Ho scelto quindi “L’impareggiabile Godfrey”, per quanto riguarda l’America e “L’angelo azzurro” per la Germania.




Nell’articolo del Corriere della Sera del 20-12-2009, lo storico Sergio Romano risponde a un lettore che, interrogandosi sulla funzione politico sociale che al giorno d’oggi hanno assunto i mass-media, cita il saggio del 1967 “Cultura di massa e comportamento collettivo”, nel quale Giorgio Galli e Franco Rositi sostengono che mentre l’America superò la crisi economica e sociale del 1929 con il New Deal, la Germania, colpita da una crisi analoga, si consegnò al nazionalsocialismo. La differenza, affermano i due storici, la fece il cinema, che, mentre in America alimentò l’ottimismo e il coraggio, facendosi portavoce della politica del presidente Roosevelt, in Germania fu “veicolo tenebroso di pessimismo e di paura”. Sergio Romano, pur mantenendo alcune riserve – tra le quali il fatto che la Germania fosse ancora in piena fase post-bellica, con l’inflazione alle stelle e un governo non stabile – si trova d’accordo con la posizione dei due storici, e porta come esempio la cinematografia di Frank Capra. Quest’ultima, a differenza di quella dei registi contemporanei tedeschi, che intendevano il cinema come specchio della società tedesca, si faceva portatrice di messaggi di fede e fiducia nel New Deal.
Accanto a Frank Capra sono da ricordare John Ford – regista del già citato “Furore” – e Gregory La Cava.
Film di grande successo di quest’ultimo è “L’Impareggiabile Godfey” [Titolo originale: “My Man Godfrey”, USA 1936]. Sebbene realizzato allorché il peggio della crisi era già passato, il film è ambientato agli inizi degli anni ’30, quando la disoccupazione sfiorava il 20%. La prima scena è un chiaro emblema della condizione di quegli anni: accanto ad un fiume, che si scoprirà essere lo Hudson di New York, dove è ambientata tutta la vicenda, è sorta una Hooverville (chiamata così da Herbert Clark Hoover, presidente repubblicano sino al 1932), una baraccopoli, popolata da uomini che hanno perduto la casa e il lavoro: alcuni cercano materie di prima necessità in mezzo ai rifiuti, altri discorrono sulla situazione attuale.
“La fortuna è dietro l’angolo..!”
“Eh, si, ma ci sta da parecchio. Vorrei sapere quale angolo, e quando si volterà”
La crisi è qui trattata con ironia, quasi con leggerezza: elemento che si ripeterà in alcuni dialoghi successivi.
Nella Hooverville giunge una lussuosa limousine, dalla quale scende una donna bionda (Carole Lombard), che, per poter vincere una particolare caccia al tesoro organizzata dalla classe aristocratica, deve portare a casa come trofeo qualcosa di insolito, che nessuno vorrebbe. La sua attenzione cade su un vagabondo, Godfrey, (William Powell) che accetta, piace alla famiglia e viene assunto come maggiordomo. I Bullock – è questo il cognome della famiglia – hanno una domestica, che avverte Godfey della condizione della famiglia da cui è stato assunto: oltre a Irene, la donna che lo ha “comprato”, vivono nella casa la madre, che ha perso il senno della ragione, la sorella, Cornelia, donna astuta e spesso isterica, e il padre, uomo che, sebbene la crisi, ostenta ancora una certa ricchezza. Il quadretto familiare creato dal regista è senza dubbio una severa critica all’upper class, che viene derisa e fatta oggetto di burla per tutta la durata della pellicola. La signora Bullock non conosce l’inno nazionale americano, a causa delle sue “parole troppo complicate”. Le due sorelle sono spesso ubriache: una notte Irene arriva a casa con un cavallo che poi “parcheggerà” in cucina.
Nel frattempo la donna si innamora di Godfrey, che, tuttavia, per non perdere il posto ed evitare lo scandalo, respinge tutti gli inviti. Ad una festa organizzata dalla signorina Cornelia, Godfrey incontra Tony, un vecchio compagno di università, che gli chiede il motivo per il quale ora lavora come maggiordomo presso una famiglia nobile. Dopo essersi dati appuntamento in un cafè appartato, Godfrey spiega la situazione all’amico: egli, infatti, dopo la rottura con il primo grande amore, mentre cammina disperato lungo il ponte sullo Hudson, decide di gettarsi. Prima di compiere il disgraziato gesto, però, nota sulla riva alcune persone che “combattevano senza lamentarsi”; decide così di unirsi a loro, iniziando una vita da vagabondo: cambia il cognome (da Park al più anonimo Smith), si lascia crescere una folta barba e si veste di stracci. Nel discorso di Godfrey appare una nuova critica all’alta borghesia, neanche troppo velata. Il maggiordomo, infatti, ammette di essersi trovato incapace di affrontare la vita, di aver trovato la forza morale e la fiducia nelle proprio possibilità solo dopo l’incontro con i vagabondi della Hooverville.
Passato qualche giorno, Cornelia, invidiosa del rapporto privilegiato che intercorre tra il maggiordomo e Irene, nasconde una collana di perle della sorella sotto il materasso di Godfrey, accusandolo di furto. La polizia, tuttavia, perquisisce la camera dell’uomo, senza trovarvici nulla. La collana sembra essere misteriosamente scomparsa.
Dopo il ritorno delle due sorelle da una lunga vacanza, Godfrey annuncia la propria volontà di congedarsi dal suo incarico: proprio in quel momento il signor Bullock irrompe disperato sulla scena, annunciando di aver perso tutte le azioni in borsa e di aver contratto debiti elevatissimi. Il grave giudizio sulla classe privilegiata trova qui il suo culmine: la vecchia upper class non solo infatti viene accusata di essere la classe che ha maggiormente influito sullo scoppio della crisi, con speculazioni rischiose e azzardate, ma viene anche additata come classe “avversaria” del New Deal. “Devo già il 40% dei miei guadagni alle tasse, ma voi consumate il rimanente 60%”, annuncia il padre alla famiglia, ma la figlia Irene ribatte sarcasticamente “Ma mi pare giusto che la tua famiglia si prenda più dello stato!”
La famiglia, ormai sul lastrico, viene tuttavia salvata da Godfrey: egli infatti ha investito la collana trovata sotto al proprio letto giocando in borsa le azioni del signor Bullock, salvando una buona somma di denaro, riuscendo a ricomprare la collana e a tenersi parte dei guadagni per sé. Quando il film sembra volgere al termine e la scalata sociale del maggiordomo sembra essersi compiuta, viene inquadrata, come in una sorta di dejà-vu della scena iniziale, la sponda dello Hudson, dove un tempo sorgeva la baraccopoli. Di essa, ora, non c’è più traccia: Godfrey ha infatti impegnato la parte di guadagno rimasta dagli investimenti borsistici per costruire il “Godfrey Park”, un nuovo quartiere dove, nei locali, vengono assunti da Godfrey e dal suo socio Tony i vagabondi che un tempo abitavano la Hooverville. Nella sua nuova casa, costruita nel quartiere, l’ormai ex maggiordomo riceve l’inaspettata visita di Irene, che senza neanche fargli aprire bocca, con la complicità di un impiegato statale, sposa Godfrey, chiudendo la scena che anticipa i titoli di coda.





L’America, il paese delle grandi opportunità, delle possibilità, del sogno americano, subisce il colpo durissimo della Grande Depressione, crisi a cui saranno paragonate tutte quelle successive, che ciclicamente colpiscono l’economia. Tuttavia, la cinematografia, sia che mostri degli anni della crisi (si vedrà, in seguito, “Furore”), sia quelli immediatamente successivi, come in questo caso, si mostra sempre portatrice di messaggi di fede e coraggio e, strizzando l’occhio alla politica del New Deal, propone un gran numero di commedie a lieto fine. Godfrey non è solamente emblema del self-made man, l’uomo che dal nulla riesce con le proprie forze a concludere la scalata sociale, quasi volendo riscattare in un certo senso il proprio passato, vissuto tra le agiatezze e le comodità dell’upper class: egli è anche un benefattore, che condivide la propria fortuna con gli altri vagabondi, per saldare il suo debito con coloro che gli hanno mostrato i veri valori, quelli morali, della generosità, dell’operosità e della speranza. I privilegiati, i loro falsi idoli materiali, vengono derisi dal regista per tutto il film, e anche dallo stesso Godfrey, che non stenta né a definirli “imbecilli” né a sbottare contro l’unico pensiero fisso che hanno: “ Soldi, soldi, sempre soldi!”.

(continua)

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